Il Decreto
legislativo 8 giugno 2001 n. 231 ha introdotto nell’ordinamento
la previsione di una responsabilità amministrativa delle persone
giuridiche, delle società e delle associazioni anche prive di
personalità giuridica) per la commissione di una serie di reati –
individuati dello stesso D.lgs. 231 – commessi da parte delle
persone fisiche ad esso legate, che abbiano agito nell'interesse o a
vantaggio dell'ente.
Gli enti che hanno nello Stato la loro sede principale rispondono
anche per i reati commessi all’estero purchè nei loro confronti non
proceda lo Stato del luogo in cui è stato commesso il fatto.
.
Perché si possa configurare la
responsabilità amministrativa dell’ente è necessario che:
⦁ il reato sia commesso da soggetti che rivestono
funzioni di rappresentanza, di amministrazione o di direzione
dell’ente o di una sua unità organizzativa dotata di autonomia
finanziaria e funzionale (c.d. soggetti “apicali”) o da persone
sottoposte alla direzione o alla vigilanza di uno dei soggetti
apicali (c.d. soggetti “sottoposti”)
⦁ il reato sia previsto quale reato presupposto
dal D.lgs. 231
⦁ il reato sia stato commesso nell’interesse o a
vantaggio dell’ente.
L’ente non risponde se si è dotato di
un modello di organizzazione e gestione idoneo ed efficace.
Le sanzioni per gli illeciti amministrativi dipendenti da reato
sono:
a) la sanzione pecuniaria;
b) le sanzioni interdittive;
c) la confisca;
d) la pubblicazione della sentenza.
La Corte di Cassazione (Cass. Sez. III
Pen., 30 maggio 2022, n. 21034) si sofferma sul concetto di interesse o vantaggio dell’ente nei
reati ambientali (nella specie: inquinamento
di acque da reflui industriali). Più precisamente, con la sentenza
in commento la Suprema Corte ha ritenuto integrata la violazione
amministrativa da parte di una società per azioni anche in
presenza di una violazione
isolata che non abbia comportato
“direttamente o indirettamente un risparmio di spesa”, il quale è
stato causato piuttosto da “scelte organizzative o gestionali
dell’Ente da considerare inadeguate”.
La vicenda processuale trae origine dal rinvio a giudizio del
legale rappresentante di una società per azioni (di seguito la
“Società”) per i reati di cui all’art. 674 cod. pen. – per aver
versato in un torrente “cose atte a offendere e imbrattare le
persone, trattandosi di rifiuti provenienti sia da scarichi di
natura industriale, perché contenenti alluminio, borio, bario,
rame ferro, zinco, piombo, nichel e cromo, sia di natura
domestica, come desumibile dall’alta concentrazione di escherichia
coli” - e all’art. 137, commi 1 e 2, d.lgs. 152/2006, “per
avere, quale legale rappresentante e gestore della […] aperto, in
difetto assoluto di autorizzazione, uno scarico che recapita nel
torrente San Marino reflui contenenti alluminio, borio, bario,
ferro, zinco, piombo, nichel e cromo totale, compresi nelle
tabelle 5 e 3/a dell’allegato 5 del d.lgs. 152/2006”.
Con sentenza del 25 ottobre 2021 il Tribunale di Rimini (i) ha
condannato il legale rappresentante alla pena di 3.000,00 euro di
ammenda e (ii) ha dichiarato la Società responsabile dell’illecito
amministrativo previsto e punito all’art. 25 undecies, comma 2,
D.lgs. 231/2001, relativamente alla contravvenzione di cui
all’art. 137, comma 2, del D.lgs. 152/2006, commessa
nell’interesse di tale persona giuridica o, comunque, per il suo
vantaggio, condannandolo a pagare la sanzione amministrativa
pecuniaria di 51.600,00 euro e disponendo anche la confisca del
relativo scarico.
Avverso tale sentenza hanno proposto
ricorso per cassazione sia la Società sia il suo legale
rappresentante.
L’impugnazione dell’ente, in particolare, è stata affidata a due
motivi. Con il primo si è lamentata l’errata applicazione
dell’art. 137 d.lgs. 152/2006, vista la “insufficiente
considerazione della presenza di reflui domestici nelle acque del
torrente San Marino, pari, secondo gli esiti degli esami chimici e
batteriologici indicati nella tabella riportata a pag. 11 della
sentenza, a 1.700.000,00, di gran lunga superiori a quelli
industriali, di poco superiori ai limiti di legge, con la
conseguenza che i reflui di cui era stata riscontrata la presenza
nel corso d’acqua avrebbero dovuto essere ricondotti al sistema
fognario pubblico, in concomitanza con eventi meteorici”; con il
secondo motivo , invece, l’ente ha evidenziato “la mancanza
assoluta di motivazione a proposito dell’interesse
dell’ente rispetto alla condotta addebitata all’imputato, in
quanto al riguardo il Tribunale si era limitato ad affermare che
l’apertura e il mantenimento dello scarico avevano consentito alla
ALI di recapitare i propri reflui senza la necessità di
raccoglierli e smaltirli secondo la normativa italiana, omettendo di considerare la
occasionalità della condotta, essendosi verificato
un unico episodio di sversamento (nel maggio 2017), e anche l’assenza di vantaggio economico
per l’ente, al quale non poteva quindi essere contestata l’assenza
di un sistema preventivo volto a evitare un fenomeno del tutto
occasionale”
La Corte di Cassazione ha rigettato il ricorso della Società,
ritenendolo infondato.
Con riferimento al primo dei due motivi di ricorso, infatti, la
Suprema Corte, richiamando giurisprudenza orami consolidata, ha
ricordato (i) che “in tema di tutela delle acque dall’inquinamento
per scarico si deve intendere qualsiasi versamento di rifiuti,
liquidi o solidi, che provenga dall’insediamento produttivo nella
sua totalità e cioè nella inscindibile composizione dei suoi
elementi, a nulla rilevando che parte di esso sia composta da
liquidi non direttamente derivanti dal ciclo produttivo, come
quelli dei servizi igienici o delle acque meteoriche, immessi in
un unico corpo recettore”; e (ii) che “Le acque meteoriche da
dilavamento sono costituite dalle sole acque piovane che, cadendo
al suolo, non subiscono contaminazioni con sostanze o materiali
inquinanti, poiché, altrimenti, esse vanno qualificate come reflui
industriali ex art. 74, comma 1, lett. h), d.lgs. 3 aprile 2006,
n. 152”.
Rigettando il secondo motivo di ricorso, inoltre, la Suprema Corte
ha spiegato che il “Tribunale, dopo aver dato atto della esistenza
di tutti i presupposti richiesti per poter ritenere configurabile
la responsabilità amministrativa dell’ente ai sensi del d.lgs. n.
231 del 2001, e cioè la sussistenza del reato […], la qualifica
soggettiva dell’autore del reato […], la mancata dimostrazione
della adozione di modelli organizzativi e di gestione idonei a
prevenire la commissione di reati quale quello realizzato dal […]
ha anche affermato che questi aveva certamente agito
nell’interesse della società che amministrava”.
La Corte di Cassazione, sul punto, ha ritenuto la motivazione del
Tribunale di Rimini idonea e corretta, in quanto “l’interesse e il
vantaggio per l’ente […]sono valutabili anche in termini di
risparmio di costi, tanto che si deve ritenere posta
nell’interesse dell’ente, e dunque
fonte di responsabilità amministrativa, anche quella condotta che, come nel caso in
esame, attui le scelte
organizzative o gestionali dell’ente da considerare inadeguate,
con la conseguenza che la condotta, anche se non implica
direttamente o indirettamente un risparmio di spesa, se è
coerente con la politica imprenditoriale di cui tali scelte sono
espressione e alla cui attuazione contribuisce, è da considerare
realizzata nell’interesse dell’ente (cfr., Sez. 6 , n. 15543
del 19/01/2021, 2L Ecologia Servizi S.r.l., Rv. 281052)”.
L’attività istruttoria espletata in primo grado, infatti, ha
chiarito che lo scarico dello stabilimento della Società
recapitava nel torrente acque meteoriche mediante stabili
tubazioni collegate alle grondaie e alle caditoie presenti nel
piazzale dello stabilimento industriale, laddove venivano stoccati
anche i lavorati in legno e che le acque che venivano recapitate
tramite tali tubazioni presentavano sostanze pericolose e
inquinanti, di natura tipicamente industriale (tra cui ferro,
boro, alluminio, cloruri, e anche, in misura minore, elementi di
natura domestica, come eschericia coli).
Per questo motivo, i giudici di legittimità hanno ritenuto
adeguatamente illustrato, nel caso di specie, l’interesse della
Società alla realizzazione della condotta illecita, “che
costituiva attuazione delle scelte organizzative e gestionali
dell’ente medesimo e dunque per tale ragione deve ritenersi
realizzata nel suo interesse e a suo vantaggio, per essere
risultata coerente e conforme con tali scelte e dunque funzionale
al sostenimento dei soli costi da esse derivanti e non a
quelli maggiori derivanti dalla necessità di raccogliere e
smaltire i reflui derivanti dall’attività d’impresa secondo la
disciplina vigente”.
Segnaliamo la recentissima e importante
pronuncia resa dalla Corte di Cassazione in tema di responsabilità
amministrativa degli enti (Cass. pen. Sez. VI, 15 giugno 2022, n.
23401), destinata a costituire un precedente estremamente
importante nell’ambito dell’interpretazione e dell’applicazione
concreta delle norme e dei principi dettati dal D.lgs. 231/2001.
La vicenda processuale relativa alla responsabilità
amministrativa dell’ente
Il Presidente del Consiglio di Amministrazione e l’Amministratore
Delegato di Impregilo S.p.a. (di seguito “Impregilo” o la
“Società”) venivano rinviati a giudizio per il delitto di
aggiotaggio, con l’accusa di aver comunicato notizie false ai
mercati circa la solvibilità e le previsioni di bilancio di altra
società controllata.
Conseguentemente, veniva contestato all’ente l’illecito
amministrativo ex art. 25 ter, lett. r), D. Lgs. n. 231/2001, in
quanto il delitto sarebbe stato commesso nell’interesse ed a
vantaggio della Società.
Il 17 novembre del 2009 il Giudice per le indagini preliminari del
Tribunale di Milano aveva assolto la Società, ritenendo che il suo
modello organizzativo fosse idoneo a ridurre il rischio di
commissione dei reati contestati ai vertici aziendali.
La Corte d’Appello di Milano respingeva l’impugnazione proposta
dal Pubblico Ministero, confermando l’adeguatezza del modello e
ritenendo elusiva la condotta degli apicali della stessa società.
Il processo giungeva, quindi, innanzi alla Corte di Cassazione, la
quale accoglieva il ricorso del Procuratore Generale ed annullava
con rinvio la sentenza d’appello. La Suprema Corte, da un lato,
riteneva il modello organizzativo della società non idoneo e,
dall’altro lato, sosteneva che la condotta degli apicali non
configurasse un’ipotesi di elusione fraudolenta, come tale idonea
ad esonerare l’ente da responsabilità secondo quanto previsto
dall’art. 6, comma 1, lett. c), D. Lgs. n. 231/2001.
Il 10 dicembre 2014 la Corte d’Appello di Milano, in veste di
Giudice del rinvio, confermava la sentenza assolutoria, mutandone
peraltro la formula e affermando che: (i) il modello della società
era idoneo, “in quanto conforme alle autorevoli indicazioni di
Consob e Confindustria”; (ii) “l’unica ipotesi sostenibile”, in
ordine alla condotta dei vertici sociali, era quella
dell’esistenza di un “accordo collusivo” tra costoro, teso alla
diffusione di informazioni false; (iii) tale accordo aveva
realizzato una “fraudolenta elusione del modello, resa possibile
per effetto di una decisione dell’organo apicale, di fatto imposta
in ragione dell’autorità del medesimo e capace di eludere
qualsiasi strumento organizzativo”.
Avverso la (seconda) sentenza d’appello proponeva nuovamente
ricorso per Cassazione la Procura Generale, all’esito del quale
veniva emessa la sentenza n. 23401/2022, di cui si riportano i
passaggi fondamentali.
1. L’idoneità del modello
organizzativo.
Esaurito l’esame delle questioni pregiudiziali e preliminari, il
primo elemento esaminato dalla Suprema Corte, necessario a
definire la configurabilità, o meno, dell’illecito contestato
all’ente, è quello dell’idoneità del modello organizzativo
adottato dalla Società.
Come noto, il modello organizzativo rappresenta uno degli elementi
centrali per la fruizione, da parte dell’ente incolpato, della
condizione esimente prevista dall’art. 6 del D.lgs. 231/2001,
considerato che “l’ente non risponde se prova che (…)”, tra
l’altro, “ha adottato ed efficacemente attuato, prima della
commissione del fatto, modelli di organizzazione e gestione idonei
a prevenire reati della specie di quello verificatosi”.
Sul punto, la Corte di Cassazione precisa che l’art. 6, nonostante
il suo tenore letterale, non configurerebbe alcuna inversione
dell’onere della prova; al contrario, graverebbe sempre
sull’accusa l’onere di dimostrare gli elementi indicativi della
colpa di organizzazione dell’ente, che rendono autonoma la
responsabilità del medesimo ai sensi del D.lgs. 231/2001.
Ulteriore corollario del significato di idoneità del modello è la
rilevanza o meno dell’effettiva consumazione del reato. I Giudici
ribadiscono come non possa darsi alcun rilievo al fatto che un
reato sia stato effettivamente commesso, giacché, altrimenti, la
condizione di esonero non potrebbe mai trovare applicazione. Per
utilizzare le parole della Corte di Cassazione, infatti, “La
commissione del reato […] non equivale a dimostrare che il modello
non sia idoneo”.
Analizzando il dettato dell’art. 6, inoltre, l’idoneità del
modello deve essere parametrata all’accettabilità del rischio
reato: e tale rischio viene ritenuto congruo quando il sistema di
prevenzione “non possa essere aggirato se non fraudolentemente, a
conferma del fatto che il legislatore ha voluto evitare di punire
l’ente secondo un criterio di responsabilità oggettiva”.
Pertanto, il modello non può escludere tout court il
rischio-reato, necessariamente insito nell’attività d’impresa, ma
deve escludere la reiterazione degli illeciti già commessi. Il
Giudice sarà chiamato, volta per volta, ad una valutazione di
idoneità del modello, che dovrà essere sempre condotta in concreto
e non in astratto (“Il Giudice, nella sua valutazione, dovrà
collocarsi idealmente nel momento in cui il reato è stato commesso
e verificarne la prevedibilità ed evitabilità qualora fosse stato
adottato il modello virtuoso”).
Così delineati i principi sottesi alla materia in discorso, la
Corte è passata ad esaminare l’idoneità del modello adottato dalla
Società.
In particolare, in relazione al reato di aggiotaggio, il modello
prevedeva “la partecipazione di due o più soggetti al compimento
delle attività a rischio”, nonché “specifiche procedure
autorizzative per comunicati stampa e divulgazioni di analisi e
studi aventi ad oggetto strumenti finanziari”. A parere dei
Giudici di legittimità, dunque, le prescrizioni (i presìdi)
contenute nel modello potevano dirsi adeguate per prevenire i
reati di comunicazione, anche alla luce del momento di commissione
del reato (consumatosi all’indomani dell’introduzione, nel nostro
ordinamento, della responsabilità da reato degli enti). Le
procedure adottate dalla Società, infatti, realizzavano un congruo
presidio preventivo, tale da concludere per l’idoneità del modello
adottato dalla Società.
2. L’organismo di
vigilanza della Società
2.1. L’autonomia dell’OdV
Ulteriore requisito previsto dalla condizione esimente, nel caso
di reato commesso da soggetto apicale, è quello che richiede
all’ente di aver affidato la vigilanza sul funzionamento e
l’osservanza del modello, nonché il suo aggiornamento, ad un
organismo dell’ente dotato di autonomi poteri di iniziativa e di
controllo (art. 6, comma 1, lett. b), D. Lgs. n. 231/2001).
Innanzitutto, occorre valutare se l’OdV – “pur non dovendo
necessariamente essere esterno alla struttura organizzativa
dell’ente” - sia dotato della necessaria autonomia rispetto
ai vertici societari, per poter assolvere in modo pieno i compiti
demandatigli.
All’interno della Società, l’organismo de quo (denominato
“compliance officer”) aveva una composizione monocratica ed era
rappresentato dal responsabile dell’internal auditing, “sganciato
dalla sottoposizione della Direzione amministrazione, finanza e
controllo, ma posto alle dirette dipendenze del Presidente del
consiglio di amministrazione”.
In conseguenza di quel che precede, la Corte di Cassazione, nella
sentenza in commento, ha affermato che “è ragionevole dubitare che
un organo monocratico, il quale, nell’organigramma aziendale, sia
posto alle dirette dipendenze del presidente, offra sufficienti
garanzie di autonomia da quest’ultimo”.
Cionondimeno, osservano i Giudici di legittimità, la lacuna del
modello deve avere efficienza causale rispetto alla commissione
del reato.
Per usare le parole della Corte di Cassazione, quindi, “Una
responsabilità di Impregilo potrebbe ravvisarsi solo se la
mancanza, in conseguenza del modello adottato, di un’adeguata
garanzia di autonomia del compliance officer aziendale abbia
permesso a presidente ed amministratore delegato di divulgare le
false informazioni al mercato”.
Tale efficienza causale è del tutto assente nel caso di specie.
Infatti, il reato di aggiotaggio commesso dal Presidente e
dall’Amministratore Delegato è stato il frutto di un’iniziativa
estemporanea di costoro, rispetto al quale il grado di autonomia
dell’organismo di vigilanza è elemento del tutto indifferente, non
essendo dimostrato che la diffusione del falso comunicato sia
avvenuto proprio a cagione della mancanza di autonomia del ridetto
organismo.
2.2. I poteri dell’organismo di vigilanza.
La Suprema Corte compie alcune puntuali precisazioni anche in
ordine ai poteri dell’Organismo di Vigilanza nell’ambito della
compliance aziendale.
Ad avviso dei Giudici di legittimità, il compito affidato all’OdV
dall’art. 6, lett. b) del D.lgs. 231/2001 è solamente quello di
“individuare e segnalare le criticità del modello e della sua
attuazione, senza alcuna responsabilità di gestione”.
La precedente sentenza di annullamento della Corte di Cassazione,
tra l’altro, aveva chiesto al Giudice del rinvio di verificare se
all’organismo di vigilanza della Società fosse “almeno consentito
di esprimere una sorta di dissenting opinion sul testo della
comunicazione approvato dai vertici societari, prima della sua
divulgazione”.
Nella sentenza in commento, i Giudici hanno osservato come risulti
“di difficile individuazione l’utilità e la concreta attuazione di
un siffatto potere, in quanto l’eventuale opinione dissenziente
non potrebbe comunque investire il merito della comunicazione,
perché l’amministrazione e le scelte operative della società non
possono essere certo appannaggio dell’organismo di vigilanza e la
verifica dell’operato degli amministratori spetta all’assemblea ed
agli altri organi societari, entro limiti e procedure stabiliti
dalla legge e dallo statuto”.
In conclusione, la Corte di Cassazione ha ritenuto che, al momento
in cui il reato è stato realizzato, il modello adottato dalla
Società, “con riferimento alla prevenzione dei cc.dd. ‘reati di
comunicazione’, fosse idoneo, pur non prevedendo una forma di
controllo preventivo del testo finale dei comunicati e delle
informazioni divulgate da presidente ed amministratore delegato”.
3. L’elusione fraudolenta del
modello.
L’ultimo profilo esaminato dalla sentenza n. 23401/2022 riguarda
quello “dell’elusione fraudolenta del modello ad opera del
presidente e dell’amministratore delegato”.
Come noto, perché l’ente possa sottrarsi alla responsabilità da
reato per fatto dei soggetti in posizione apicale, l’art. 6, comma
1, lett. c) del D.lgs. 231/2001 richiede che costoro abbiano
commesso il reato “eludendo fraudolentemente i modelli di
organizzazione e di gestione” .
A parere dei giudici, il concetto di elusione implica una
“condotta munita di connotazione decettiva”; il predicato di
fraudolenza, a rafforzamento della parola “elusione”, evidenzia,
inoltre, l’insufficienza della semplice violazione delle regole
del modello: è necessaria, dunque, una condotta ingannatoria, o
più precisamente “una condotta ingannevole, falsificatrice,
obliqua, subdola” (Cass. Pen., Sez. VI, sent. n. 23401, 15 giugno
2022).
La condotta della persona fisica, dunque, realizza l’elusione
fraudolenta del modello non già quando il reato rappresenti il
prodotto di una disorganizzazione dell’ente, bensì qualora il
reato si realizzi nonostante l’adeguatezza dell’organizzazione,
aggirabile solo tramite una condotta ingannevole.
Tutto ciò premesso, nel caso di specie la Suprema Corte ha
ritenuto la condotta tenuta dal presidente e dall’amministratore
delegato della Società “fraudolentemente elusiva delle
prescrizioni del modello organizzativo adottato dalla società”. I
vertici societari, infatti, avrebbero sfruttato il loro spazio di
autonomia per alterare i dati, attraverso un accordo estemporaneo
e repentino, tale da rendere impossibile qualsiasi interlocuzione
da parte di altri organi sociali. Un siffatto comportamento
risulterebbe munito di efficacia decettiva: per usare le parole
della Corte di Cassazione, si tratterebbe di una condotta
“falsificatrice (…) nonché ingannevole e subdola, perché prodotta
da un’intesa occulta e repentina tra i suoi autori (…)”.
Per tutti i motivi che precedono, il ricorso del Procuratore
Generale è stato rigettato, con conseguente e definitiva
assoluzione della Società da responsabilità ex D.lgs. 231/2001.
Con la Legge 9 marzo 2022, n. 22, recante
“Disposizioni in materia di reati contro il patrimonio culturale”,
pubblicata in Gazzetta Ufficiale n. 68 – Serie generale del 22
marzo 2022 (in vigore da ieri, 23 marzo 2022) è stato
ulteriormente esteso il novero dei reati-presupposto della
responsabilità amministrativa degli enti derivante da reato,
comprendendovi i delitti contro il patrimonio culturale.
L’intervento normativo, il cui intento primario è quello di
riformare la disciplina della tutela dei beni culturali, ha
inserito nel Codice Penale e nel D.lgs. 8 giugno 2001, n.
231 diverse fattispecie incriminatrici, fino ad oggi presenti
esclusivamente nel Codice dei beni culturali e del paesaggio
(D.lgs. 22 gennaio 2004, n. 42).
La disciplina della responsabilità amministrativa derivante da
reato degli enti si arricchisce, così, di due nuovi articoli:
l’art. 25-septiesdecies, “Delitti contro il patrimonio culturale”
e l’art. 25-duodeviicies, “Riciclaggio di beni culturali e
devastazione e saccheggio di beni culturali e paesaggistici”.
Nel primo dei due (art. 25-septiesdecies) sono stati ricompresi i
seguenti articoli:
· Art. 518-bis
c.p., “Furto di beni culturali”.
· Art. 518-ter
c.p., “Appropriazione indebita di beni culturali”.
· Art. 518-quater
c.p., “Ricettazione di beni culturali”.
· Art. 518-octies
c.p., “Falsificazione in scrittura privata relativa a beni
culturali”.
· Art. 518-novies
c.p., “Violazioni in materia di alienazione di beni culturali”.
· Art. 518-decies
c.p., “Importazione illecita di beni culturali”.
· Art.
518-undecies c.p., “Uscita o esportazione illecite di beni
culturali”.
· Art.
518-duodecies c.p., “Distruzione, dispersione, deterioramento,
deturpamento, imbrattamento e uso illecito di beni culturali e
paesaggistici”.
· Art.
518-quaterdecies, “Contraffazione di opere d'arte”.
In caso di commissione di detti delitti da parte di un soggetto
apicale o sottoposto e nell’interesse o a vantaggio dell’ente, a
quest’ultimo potranno essere applicate sia sanzioni pecuniarie (da
cento a novecento quote, a seconda del reato commesso) sia
sanzioni interdittive (per una durata non superiore a 2 anni).
Il “nuovo” art. 25-duodevicies del D.lgs. 231/2001, invece,
estende la responsabilità da reato degli enti ai nuovi delitti di
cui agli artt. 518-sexies c.p. (“Riciclaggio di beni culturali”) e
518-terdecies c.p. (“Devastazione e saccheggio di beni culturali e
paesaggistici”).
In caso di consumazione di uno di detti reati da parte di un
soggetto apicale o sottoposto, nell’interesse o a vantaggio
dell’ente, è prevista una sanzione pecuniaria da 500 a 1.000
quote, oltre – eventualmente - all'interdizione definitiva
dall'esercizio dell'attività (nel solo caso in cui l'ente, ovvero
una sua unità organizzativa, sia stabilmente utilizzato allo scopo
unico o prevalente di consentire o agevolare la commissione dei
delitti di riciclaggio, devastazione e saccheggio di beni
culturali).
A seguito di dette novità normative appare opportuno, per le
società, compiere, anche solo a scopo preventivo, un’analisi dei
rischi, volto a verificare la rilevanza dei nuovi reati rispetto
all’operatività aziendale svolta in concreto ed eventualmente
aggiornare i modelli di organizzazione e gestione.
Segnaliamo due recenti sentenze di segno
opposto della Corte di Cassazione, rese – a distanza di una
settimana una dall’altra - in tema di infortuni sui luoghi di
lavoro, violazione della normativa antinfortunistica e
responsabilità amministrativa degli enti (ex D.lgs. 231/2001).
Cass. Pen., Sez. IV, 1° giugno 2021, n. 21522
Nel corso del 2017 un lavoratore dipendente di una società a
responsabilità limitata, mentre operava sulla postazione
dell’isola di fusione, veniva colpito alle spalle dalla tazza di
caricamento che trasferiva il metallo fuso dal forno alla
conchigliatrice, rimanendo incastrato fra quest’ultima e il forno.
Il normale funzionamento del macchinario prevedeva che la tazza
avrebbe dovuto arrestarsi a metà corsa, prima di proseguire verso
il forno; tuttavia, in quell’occasione la tazza, anziché fermarsi,
aveva proseguito la corsa, colpendo il lavoratore alle spalle,
mentre caricava il forno e spingendolo verso di esso.
Sia il Tribunale di Busto Arsizio sia la Corte di Appello di
Milano condannavano l’ente per illecito amministrativo, ai sensi e
per gli effetti del combinato disposto dell’art. 5.1. lett. a) e
25 septies D.lgs. 231/2001.
La sentenza di condanna per l’ente è stata confermata anche in
sede di legittimità, laddove è stato riconosciuto in via
definitiva che la consapevole scelta di adoperare nel ciclo
produttivo un macchinario privo del collaudo definitivo è stata
adottata con l’intento di far conseguire all’ente il massimo
profitto possibile; oltre a ciò, si è accertato che l’effettivo
risparmio dei costi rispetto agli interventi di manutenzione
richiesti, nonché alle attività di formazione e informazione dei
dipendenti, è coinciso con il concreto vantaggio dell’ente.
Cass. Pen., Sez. IV, 8 giugno 2021, n. 22256
Nella vicenda di specie, un autista dipendente di una società,
sceso dall’automezzo per effettuare operazioni a terra, veniva
urtato dal muletto condotto un suo collega. Nelle fasi di merito,
la responsabilità penale del datore di lavoro e quella
amministrativa dell’ente sono state dichiarate ai sensi degli
artt. 63 e 64 d.lgs 81/2008, per non aver organizzato il luogo di
lavoro in maniera conforme a quanto previsto nell’allegato IV,
punto 1.4, e, in particolare, per non aver predisposto una
viabilità sicura e tale da evitare collusioni tra mezzi e persone.
La Corte di Cassazione, tuttavia, ha accolto il ricorso della
società, non ritenendo ravvisabile, nel caso di specie, la
responsabilità amministrativa dell’ente per la violazione di norma
antinfortunistiche.
Infatti, a seguito dell’analisi dei fatti oggetto della vicenda,
non sono stati riscontrati i requisiti dell’interesse e vantaggio
a favore dell’ente; sul punto la Suprema Corte ha ricordato che
“il requisito dell’interesse non ricorre quando la mancata
adozione delle cautele antinfortunistiche risulti essere l’esito
di una semplice sottovalutazione dei rischi o di una cattiva
considerazione delle misure di prevenzione necessarie e non di una
scelta finalisticamente orientata a risparmiare sui costi
dell’impresa, e quello di vantaggio richiede la sistematica
violazione delle norme prevenzionistiche, e, dunque, una politica
di impresa disattenta alla materia della sicurezza sul lavoro, che
consenta una riduzione dei costi e un contenimento della spesa con
conseguente massimizzazione del profitto”.
In entrambe le sentenze, la IV Sezione Penale della Corte di
Cassazione ha fornito un’ampia ed esaustiva analisi delle
disposizioni e della giurisprudenza relativa ai reati derivanti
dall’inosservanza della normativa sui luoghi di lavoro, applicando
ai casi concreti, tra l’altro, i seguenti principi di diritto,
ormai consolidati:
1. i concetti di interesse e vantaggio vanno
riferiti alla condotta e non all’evento e devono ritenersi criteri
di imputazione oggettivi, alternativi e concorrenti fra loro;
2.l’interesse dell’ente ricorre qualora
l’autore del reato, pur non volendo il verificarsi dell’evento
dannoso, ha consapevolmente violato la normativa cautelare allo
scopo di conseguire un’utilità per l’ente;
3.la nozione di vantaggio deve essere
interpretata quale violazione sistematica delle norme
prevenzionistiche, con l’intento di ridurre i costi e di contenere
le spese sostenute dall’ente, massimizzando in tal modo il proprio
profitto o la propria produzione, indipendentemente dalla volontà
di ottenere il vantaggio stesso.
Con riferimento specifico alle norme antinfortunistiche, si
ricorda, infine, che “il risparmio in favore dell’impresa, nel
quale si concretizzano i criteri di imputazione oggettiva
rappresentati dall’interesse e dal vantaggio, può consistere anche
nella sola riduzione dei tempi di lavorazione, tant’è vero che il
vantaggio è stato ravvisato anche nella velocizzazione degli
interventi manutentivi che sia tale da incidere sui tempi di
lavorazione” (Cass. Pen., Sez. IV, 8 giugno 2021, n. 22256).
Nel
caso di specie, il Tribunale di Padova, in composizione monocratica,
ha applicato - sull'accordo delle parti ex art. 444 cod. proc. pen.
- ad una società responsabile del reato di lesioni commesso con
violazione delle norme sulla tutela della salute e sicurezza sul
lavoro la sanzione pecuniaria di € 12.900,00 (corrispondente a n. 50
quote societarie), oltre alle sanzioni interdittive di cui all’art.
9, comma 2, del D.lgs. 231/2001 per la durata di mesi tre.
Avverso detta sentenza ha proposto ricorso per cassazione
l’Amministratore Unico della Società, ritenendo, tra l’altro, che le
sanzioni interdittive non costituiscano una conseguenza automatica
della condanna o dell'applicazione della pena su richiesta; oltre a
ciò, nel caso specifico le sanzioni interdittive erano rimaste
escluse dal realizzato accordo ex art. 444 cod. proc. pen., avente
ad oggetto la sola applicazione della pena pecuniaria, per cui tali
sanzioni non avrebbero potuto essere applicate dal giudice, in
quanto in violazione dell'accordo raggiunto tra le parti.
La Corte di Cassazione, accogliendo il ricorso, ha dichiarato
l’illegittimità della sentenza impugnata nella parte in cui ha
applicato cumulativamente le sanzioni interdittive e ha ribadito il
principio in forza del quale “nel caso di "patteggiamento"
l'applicazione delle sanzioni interdittive possa essere consentita
solo all'esito di un espresso accordo intervenuto tra le parti,
mediante il quale vengano preventivamente stabiliti il tipo e la
durata della sanzione ex art. 9, comma 2, d.lgs. n. 231 del 2001 in
concreto da applicarsi”.
L’Associazione dei Componenti degli Organismi di Vigilanza ex d.lgs.
231/2001 ha richiesto un parere del Garante della Privacy in merito
alla qualificazione soggettiva ai fini privacy degli Organismi di
Vigilanza, sostenendo dalla sua che questi ultimi non siano da
considerarsi né titolari né responsabili del trattamento.
Il Garante è intervenuto sull’argomento con parere del 12 maggio
2020, approfondendo i concetti di “soggetto incaricato autorizzato”,
“Responsabile del trattamento dei dati” e “Titolare del trattamento
dei dati” ai sensi del Regolamento UE 2016/679 (GDPR).
Secondo il Garante privacy – Dipartimento Realtà economiche e
Produttive, l’OdV in quanto tale - pur essendo dotato di autonomi
poteri di iniziativa e controllo nell’ambito dell’attività di
vigilanza sull’idoneità e adeguatezza dei Modelli di Organizzazione,
Gestione e Controllo e di cura del loro aggiornamento - non è da
considerarsi autonomo titolare del trattamento, in quanto i suoi
compiti sono determinati dalla legge e dall’ente per il quale svolge
tale ruolo. Inoltre, proprio perché l’OdV non è distinto
dall’ente, ma è “parte dello stesso” – a prescindere dalla
circostanza che i suoi membri siano interni o esterni – esso non può
nemmeno considerarsi un “responsabile del trattamento”, inteso come
soggetto terzo chiamato ad effettuare un trattamento per conto del
titolare.
Sorge, quindi, la necessità di considerare il ruolo dei singoli
membri dell’OdV in ragione delle modalità e tipologie dei
trattamenti dati che li vedono coinvolti in ragione dello
svolgimento dei loro compiti.
Secondo il Garante privacy, i singoli membri dell’OdV dovranno
attenersi alle istruzioni impartite dall’ente Titolare del
trattamento dati, affinché il trattamento avvenga in conformità ai
principi di cui all’articolo 5 del GDPR (attinenza, necessità,
pertinenza etc). I singoli membri che compongono l’Organismo devono
essere, quindi, intesi come soggetti autorizzati (c.d. incaricati
del trattamento, art. 4, n. 10 GDPR) che agiscono - pur
nell’indipendenza ed autonomia rispetto agli organi di gestione
societaria – nell’adempimento dei propri compiti ai sensi del
GDPR.
L’ente, in conformità del principio dell’acccountability (art. 24
GDPR), procederà alla loro formale nomina e all’adozione delle
misure tecniche ed organizzative idonee a garantire la protezione
dei dati trattati, pur garantendo all’OdV l’autonomia e
l’indipendenza che deve contraddistinguere tale organo.
The
Association of the members of the Control Bodies under Italian
Legislative Decree 231/2001 has requested an opinion to the Italian
Data Protection Authority on the qualification, for data
protection purposes, of the Control Bodies, deeming the latter
neither data controllers nor data processors.
The Authority issued an opinion on 12th May 2020, looking into the
notions of “authorised subject”, “Data Processor” and “Data
Controller” according to EU Regulation 2016/679 (GDPR).
According to the Data Protection Authority, the Control Body, as
such – though granted autonomous powers of initiative and control on
the suitability and adequacy of the Organisation, Management and
Control Models and of any update thereof – it is not to be
considered autonomous Data Controller, since its tasks are regulated
by law and by the entity on behalf of which it operates.
Furthermore, since the Control Body is not separated from the
entity, but is a “part thereof” – be its members internal or
external – it cannot be considered a “data processor”,
intended as third subject requested to process data on behalf of the
controller.
Therefore, it is necessary to regard the role of the Control Bodies’
members on the basis of the modality and kind of data processing in
which they are involved by reason of their role.
According to the Data Protection Authority, the single members of
the Control Bodies shall comply with the instructions given by the
entity Data Controller, in order to guarantee that the processing
follows the principles under article 5 of the GDPR (relevance,
necessity, pertinence etc). Members of the Control Body must
therefore be considered as authorized subjects under article
4, no. 10, of the GDPR) who operates - even though autonomous
and independent with respect to the management of the company – in
the fulfillment of their duties according to the GDPR.
The entity, in compliance with the acccountability principle
(article 24 GDPR), shall formally appoint them and adopt the
adequate technical and organisational measures to ensure
protection of processed data , whilst granting the independence
which the Control Body must possess.
La
legge 19 dicembre 2019 n. 157– che ha convertito con modifiche
il c.d. Decreto Fiscale (DL 26 ottobre 2019 n. 124) – ha introdotto
nel D.lgs. 231 i reati tributari
Nello specifico, l’articolo 39 di detta Legge ha aggiunto al D.lgs.
231 l’articolo 25-quinquiesdecies, relativo alla
responsabilità amministrativa della società per i seguenti delitti
previsti dal D.lgs. 74/2000:
-
dichiarazione fraudolenta mediante uso di fatture o altri documenti
per operazioni inesistenti;
-
dichiarazione fraudolenta mediante altri artifici;
- emissione di
fatture o altri documenti per operazioni inesistenti;
- occultamento
o distruzione di documenti contabili
- sottrazione
fraudolenta al pagamento di imposte.
L’articolo 25-quinquiesdecies prevede per tali delitti
l’applicazione delle sanzioni pecuniarie (da 400 a 500 quote, a
seconda del reato, aumentate di un terzo se l’ente ha conseguito un
profitto di rilavante entità in seguito alla commissione del reato)
e delle sanzioni interdittive di cui all’articolo 9, comma 2,
lettere c), d) e e) del D.lgs. 231, ossia:
c) il divieto di contrattare con la pubblica amministrazione, salvo
che per ottenere le prestazioni di un pubblico servizio;
d) l'esclusione da agevolazioni, finanziamenti, contributi o sussidi
e l'eventuale revoca di quelli già concessi;
e) il divieto di pubblicizzare beni o servizi.
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Slides formazione Dlgs 231 novembre 2019
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Avvocato Francesca Caporale
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